Nato da uno spunto quasi banale, un happening di poeti e musicisti in cui Pierluigi Cappello declamava poesie accompagnato dal jazz di Battista Lena, è evidente come in Parole povere la curiosità registica di Francesca Archibugi sia andata ben oltre. Perché Cappello, costretto su una sedia a rotelle dall'età di sedici anni, rappresenta, da un lato, l'emblema della vita dedicata o sacrificata all'arte e, dall'altro, la scelta di indagare nel profondo la propria appartenenza, le proprie radici, non per smania di localismi ma come percorso necessario per saperne di più se stessi, cercandosi attraverso le parole.